Suono bene comune

ANTONELLA DI CUONZO – FRANCESCO GIOMI – LUDOVICO PERONI (a cura di)
Suono bene comune, Squilibri, Roma 2022, pp. 247, € 20,00

A CHI SI RIVOLGE
Il volume costituisce uno degli esiti di un progetto di ricerca a cui il Dipartimento di Storia, Archeologia, Geografia, Arte e Spettacolo dell’Università di Firenze ha partecipato insieme ad altre tre sedi universitarie. In particolare il nucleo fiorentino si è concentrato sui patrimoni sonori antropici e il paesaggio sonoro e questi studi hanno condotto alla realizzazione del Convegno Sounds of the Pandemic in collaborazione con l’Associazione Tempo Reale, tenutosi necessariamente a distanza nel dicembre 2020. Esso raccoglie contributi di studiosi del vasto e articolato campo di indagine che osserva il suono da prospettive e metodologie afferenti all’antropologia, all’etnomusicologia, alla fenomenologia dell’esperienza sonora, agli studi sul paesaggio sonoro, all’ecologia. I suoi destinatari possono dunque essere ricercatori e studenti interessati a questi settori disciplinari, ma anche docenti che, convinti del grande potenziale comunicativo e formativo dell’esperienza sonora, possono trovare spunti per la realizzazione di progetti con le proprie classi.

MOTIVI DI INTERESSE
Siamo di fronte a un tipico esempio di come i condizionamenti imposti da avvenimenti imprevisti possano generare “deviazioni” feconde per la ricerca e la riflessione. Un progetto nato per studiare i patrimoni sonori si imbatte nel dramma della pandemia e da questa congiuntura trae spunto per far risaltare la centralità della comunicazione sonora, spesso negletta o sottovalutata in relazione alla comunicazione visiva. Un po’ come accade quando il condizionatore si spegne improvvisamente e solo allora ci accorgiamo della sua presenza sonora, il lockdown sconvolge il paesaggio sonoro per sottrazione, ma al tempo stesso crea uno spazio sonoro più ampio e nitido in cui possiamo recuperare il gusto dell’ascolto e possiamo renderci conto di quanti suoni condividiamo e di come la loro presenza sia significativa. La pervasività e l’immaterialità dell’esperienza sonora fanno sì che spesso siamo scarsamente consapevoli della presenza del suono, ma la sua assenza fa risaltare nitidamente quanto le caratteristiche del paesaggio sonoro possano influire sul benessere individuale e collettivo. Da qui all’idea di suono come bene comune il passo è breve e diventa evidente la necessità di prendersene cura, di valorizzarne la presenza e le potenzialità comunicative.
Il volume si articola in due parti, denominate rispettivamente Riflessioni e Esperienze e Progetti. Nella prima parte il tema del suono come bene comune viene affrontato da varie prospettive in equilibrio fra estetica, filosofia, antropologia, sociologia. La seconda parte, introdotta da un saggio sul silenzio di Francesco Giomi, raccoglie sperimentazioni e ricerche sul paesaggio sonoro realizzate nello spazio temporale e spaziale della pandemia.
Ma in che senso il suono è bene comune? È pressoché impossibile dare conto di tutte le considerazioni contenute nel testo, anche perché è il suono stesso in quanto fenomeno a sfuggire alle categorizzazioni. Nell’era in cui viviamo tendiamo a considerare un bene solo ciò che è un oggetto e un prodotto, ma Francesco Remotti – con l’aiuto dei Pigmei Ba Mbuti – ci fa riflettere sul fatto che il suono e la musica, nonostante oggi possano essere “oggettualizzati” attraverso la loro infinita riproduzione, trovano il loro valore più profondo nella capacità di dare senso e forma al divenire, di essere un bene fluido, evanescente e condiviso come l’acqua dei ruscelli. D’altro canto, Roberto Neulichedl sottolinea che il suono vive al confine fra immateriale e materiale. È presenza umbratile delle cose, ma delle cose non può fare a meno per esistere, diventando così «specchio della relazione con l’ambiente» (p. 37).  Può farci «vedere dentro le cose», può, rimbalzando fra i corpi, farci vedere le cose stesse, fino a coglierne distanze e collocazione spaziale. La sua imprescindibile relazione con un corpo in movimento lo include a buon diritto fra le “forme vitali”, che nell’accezione di Daniel Stern rappresentano «le più fondamentali fra tutte le esperienze vissute nell’interazione dinamica con tutti gli esseri umani» (p. 38).
C’è ancora molto da fare per diffondere questa consapevolezza, sia nella scuola che nella società, ma non c’è dubbio che ne valga la pena.

Anna Maria Freschi